Spazio alla critica

Le recensioni di importanti giornalisti ai nostri interpreti.

Le recensioni a cura di:

Nicola Lischi

Critico musicale Opera Britannia e GBOpera

Eva Pleus

Giornalista e critico musicale

GALA RENATO CIONI

Marciana, Venerdì 10 Luglio 2015 ore 21,30

La recensione • Nicola Lischi

Fatta eccezione per il baritono Hyun Kyu Ra, gli altri cantanti mi erano già noti in quanto avevano preso parte ai gala precedenti e quindi ho avuto l’occasione di confermare le mie impressioni iniziali.

Hyun Kyu Ra ha un timbro gradevole, dai centri morbidi, ma dovrebbe fare più attenzione a coprire il registro acuto e a curare maggiormente il legato. Fra le due arie portate, “Di Provenza il mare, il suol” da La traviata mi pare più adatta ai suoi mezzi e soprattutto al suo temperamento rispetto all’aria di Escamillo da Carmen, che richiede maggiore spavalderia e un’estensione nei gravi da basso-baritono.

Natalizia Carone ha offerto un’esecuzione di prima classe della difficilissima aria di Violetta alla fine del primo atto de La traviata, con il pathos e il legato necessario in “Ah, fors’è lui”, ottimi acuti e sovracuti nella cabaletta (conclusa da un bel mi bemolle 5) e anche un’agilità accurata. “Je veux vivre” da Roméo et Juliette le si addice meno, non tanto per una questione puramente vocale quanto per il fatto che non la vedo molto adatta ai ruoli di “ingenua”.

Amo molto il timbro tendenzialmente chiaro ma caldo e rotondo del mezzosoprano Marta Leung Kwing Chung, che considero un’artista completa, tecnicamente competente, e che mi sarebbe piaciuto ascoltare alle prese con un vero tour de force come il rondò da La Cenerentola. Purtroppo un’indisposizione (non annunciata) l’ha costretta a sostituirla con un’aria di minor impatto, “Voi che sapete” da Le nozze di Figaro.

Hamadi Lagha ha ricevuto in dono dalla natura un bene preziosissimo, ossia una voce tenorile da tenore lirico puro, schietta, solare, molto mediterranea: insomma quando si pensa ad una voce di tenore, questo tipo di timbro è quello che viene immediatamente in mente. E anche tecnicamente sa il fatto suo: esegue un buon passaggio di registro e gli acuti quindi sono ben emessi e squillanti. Come ho scritto in precedenza, consiglierei a Hamadi di prendere in considerazione un repertorio più lirico: è giovane e ha tutto il tempo per cantare ruoli più spinti. Se mi si permette il paragone, mi viene in mente un cavallo di razza pregiata da domare.

Taisiya Ermolaeva è in possesso di una voce da vero soprano spinto (andrei più cauto con la definizione “drammatico”), categoria oggigiorno quasi in via di estinzione; la tecnica è piuttosto scaltra e ha volume da vendere. Se “Vissi d’arte”, pur ben cantata, aveva un che di scolastico, l’aria di Santuzza da Cavalleria rusticana era pressoché perfetta, ineccepibile; acuti potenti e timbrati si accompagnavano ad un registro centrale ben proiettato e ad un registro grave di chiaro impatto e soprattutto emesso con gusto, senza sbracature e pericolosi affondi di petto. Non è stato facile scegliere un vincitore e se io e il più esperto collega Luigi Zacco Giovanelli abbiamo scelto Taisyia Ermolaeva è soprattutto perché ci è parso che una voce “importante” in un repertorio in cui i veri spinti scarseggiano abbia più possibilità di emergere.

GALA MARIO DEL MONACO

Collesalvetti, Giovedì 07 Maggio 2015 ore 20,30

La recensione • Nicola Lischi

Taisiya Ermolaeva possiede una di quelle voce cosiddette “importanti”, un autentico soprano spinto, a proprio agio in un registro medio-grave piuttosto timbrato e sonoro; nella prima aria, “Vissi d’arte”, le prime salite verso l’alto (i la bemolle di “quante miserie” ecc.), rivelano che anche il registro acuto è potente e facile, e che il soprano segue meticolosamente le indicazioni del compositore (non succede molto spesso di sentire il pp sul si bemolle 3 di “remuneri così”). Molto bene anche la parte più ostica dell’aria, l’ascesa al si bemolle 4 (se vogliamo trovare il pelo nell’uovo un pochino più di morbidezza non avrebbe nociuto), e gli intervalli discendenti seguenti; anche l’ultima nota, il si bemolle su “così” avrebbe potuto esser cantato più piano. In ogni caso, sia questa, che l’aria successiva, “Voi lo sapete, o mamma”, hanno mostrato un soprano tecnicamente agguerrito che mi piacerebbe poter ascoltare presto in teatro, in uno spazio più consono a voci così ricche. Attenzione ad alcuni suoni leggermente crescenti dovuti al troppo impeto.

La prima cosa che ha colpito in Sara Angeliki Nastos, ancor prima che aprisse bocca, è la auto-definizione di contralto, in quanto questo registro vocale in via d’estinzione si trova assai di rado ormai nelle descrizioni di una cantante. Come le è stato fatto notare da un altro membro della giuria, una tale classificazione alza automaticamente le aspettative, e anche io inviterei la signora Nastos a riflettere sull’importanza di questo “biglietto da visita”, tanto più che al contrario ci è sembrata esser voce di mezzosoprano, e anche abbastanza chiaro. Se il timbro – definizione a parte – è in ogni caso abbastanza gradevole, la Nastos ci è parsa in difficoltà soprattutto nelle agilità del rondò di Cenerentola.

Problemi di emissione non indifferenti hanno contraddistinto anche la prova di Clorindo Manzato; a parte il timbro più adatto a un repertorio buffo, il baritono veneto ha costantemente adottato un’emissione di forza, affidata soltanto all’indiscutibile resistenza delle corde vocali. Fra le due arie, la cavatina di Figaro gli sarebbe in ogni caso più consona.

Vi sono al contrario cantanti che pur non offrendo prestazioni ottimali fanno intuire spazio per ampio miglioramento, e che certi miglioramenti potrebbero avvenire, con i dovuti accorgimenti, anche in tempi relativamente brevi. Tale è il caso del soprano coreano Jiyoung Yeo, la quale ha dapprima colpito con una prova rispettabilissima della seconda aria della Regina della Notte, contraddistinta da picchettati impeccabili, intonati accompagnati a un timbro quasi da soprano lirico in grado di emettere un bel si bemolle (hört) pieno e corposo; ha inoltre evidenziato una certa verve interpretativa nelle minacce alla figlia situate nel registro medio-acuto: in pratica un’Astrifiammante quale potrebbe comodamente trovarsi in molti teatri d’opera anche d’una certa importanza. Diversa situazione per un’aria ben più complessa, quella di Violetta alla fine del primo atto de La traviata. Qui ha di nuovo messo in evidenza un timbro gradevole e caldo, ma, visibilmente in preda al panico, ha commesso una serie di errori anche vistosi che probabilmente avrebbe evitato in altre circostanze; i re bemolli di “gioir” erano entrambi fissi, per non parlare del mi bemolle finale davvero infelice, eppure ho avuto la netta sensazione che queste note facciano parte della gamma vocale del soprano. Belli erano invece i do ribattuti e ben sgranata l’agilità delle scale discendenti della cabaletta. Una cantante interessante da tenere d’occhio.

Non altrettanto può dirsi purtroppo per il suo conterraneo Chihwan Seo, tenorino dal timbro chiarissimo, quasi evanescente (e questo non sarebbe un male, anzi, mi piacciono i tenori leggerissimi che si accettano così come sono) tecnicamente in difficoltà a causa di uno scarso appoggio e immascheramento del suono, che gli hanno causato vari incidenti di percorso, acuti pericolosamente aperti (e infatti il suono si è spezzato un paio di volte) e fiati molto corti.

Encomiabile la scelta da parte del soprano Victoria Markaryan di un’aria bellissima e poco eseguita, come quella di Sofia da Il signor Bruschino di Rossini, in cui però erano immediatamente evidenti i suoi pregi e difetti; tra i primi un timbro dolce e piacevole e dei picchettati anche nel suo caso molto precisi; fra i secondi, l’emissione poco appoggiata che quindi soprattutto nel registro centrale provocava un suono un poco fioco e malfermo, e di conseguenza spesso un pochino calante, il che ha avuto un effetto negativo soprattutto in “Ah, non credea mirarti”, con la tessitura decisamente bassa per il soprano georgiano; decisamente più interessante il registro acuto sfoggiato nella cabaletta anche se lì non mancavano certe fissità. Data la giovane età, siamo convinti che questi problemi possano esser risolti; l’indubbia bellezza e aristocratico portamento scenico non possono che giovarle.

GALA RENATA TEBALDI

Collesalvetti, Giovedì 30 Aprile 2015 ore 20,30

La recensione • Nicola Lischi

Nelle mie recensioni accade molto spesso che, pur elogiando l’artista, mi ritrovi a dover sottolineare il fatto che stia cantando un repertorio troppo drammatico per le proprie corde, in quanto per moltissimi la tentazione di fare il passo più lungo della gamba è troppo forte; Natalizia Carone è al contrario un raro caso di cantante che, secondo la mia personale opinione, propone un repertorio troppo leggero per le sue doti vocali attuali, troppo da “ingenue” per il temperamento mostrato. Infatti, sia “Caro nome” dal Rigoletto che “Je veux vivre” da Roméo et Juliette (il primo più del secondo) sembrano starle un po’ strette. Entrambe le arie sono cantate nel primo atto delle rispettive opere, quando i personaggi sono ancora ragazzine inesperte e sognatrici; sicuramente il resto di entrambe le opere, dalla tessitura più centrale e dall’agilità meno impegnative, sono adatte alla Carone, soprano dal timbro gradevole e di un certa corposità, con acuti molto sicuri (bello il re sovracuto della cadenza finale e di una facilità quasi insolente il do acuto alla fine dell’aria di Gounod). La coloratura invece non era molto precisa, gli staccati della cadenza di tradizione di “Caro nome” un po’ faticosi, ed è anche per questo che prevederei per questo soprano di indubbio talento una svolta verso un repertorio molto più lirico. Da segnalare anche la messa di voce alla fine di “Caro nome”.

Il baritono giapponese Caccian Zaha non brilla per particolari dovizie timbriche o tonnellaggio vocale; in compenso possiede una grande musicalità, dizione inappuntabile e padronanza scenica, che dovrebbero suggerirgli di dedicarsi al repertorio prettamente buffo, dove indubbiamente avrebbe molto da dare.

Lucia Conte ha un timbro da soprano leggero molto piacevole, ricco di armonici, uno di quelli che sicuramente “corrono” e non hanno problemi a penetrare l’orchestra. Molto buona è stata l’interpretazione del Valzer di Musetta, ruolo che sembra starle a pennello e che potrebbe benissimo cantare in ogni teatro (come altre sue colleghe però si dimentica di sfumare il si naturale alla fine), mentre meno convincente è stata “Una voce poco fa”: se si sceglie di cantare quest’aria è tassativamente indispensabile possedere un virtuosismo sfacciato, una coloratura precisissima, che la Conte ancora non padroneggia completamente; in caso contrario è meglio lasciarla, come per fortuna si fa ormai da decenni, alle vere titolari del ruolo, i mezzosoprani.

Maria Salvini è un soprano giovane e molto promettente; anzi per alcuni versi, per il controllo del palcoscenico, per il fraseggio accurato e fantasioso, il modo di porgere, il bel legato, il ricorso a un’ampia gamma di dinamiche, e per l’intelligenza di saper scegliere il giusto repertorio sembrerebbe già pronta per il grande salto. Il timbro è di soprano leggero ma possiede una morbidezza, uno squillo in zona centrale, un calore generalmente precluso a questa categoria vocale. Le due arie prescelte, l’aria del sorbetto di Berta da Il barbiere di Siviglia e “In uomini, in soldati” dal Così fan tutte non potevano esser meglio eseguite, eccezion fatta per un la naturale acuto un po’ sfocato alla fine dell’aria rossiniana. In poche parole, una giovane cantante da tenere d’occhio.

Non è facile trovare un tenore che cerchi scrupolosamente di osservare ogni indicazione dinamica del compositore, cosa che Simone Francesco Liconti ha fatto in entrambe le sue due arie: “La fleur…” dalla Carmen di Bizet e “E lucevan le stelle” dalla Tosca pucciniana. Ha addirittura eseguito il si bemolle dell’aria di Don Josè con uno smorzando, gesto che ho apprezzato moltissimo, dato pochi in teatro si degnano di farlo. Il problema è che secondo il mio personalissimo parere, il timbro è da tenore lirico leggero, e si avvertiva la mancanza di un peso vocale appropriato a questo repertorio. Mi sarebbe piaciuto sentire, per esempio, “Una furtiva lagrima”, cantata con la stessa attenzione alle indicazioni dinamiche prestate alle altre due arie.

GALA ETTORE BASTIANINI

Collesalvetti, Giovedì 16 Aprile 2015 ore 20,30

La recensione • Nicola Lischi

Annalisa Ferrarini ha messo in evidenza un timbro da soprano lirico leggero penetrante, squillante, una voce che come si dice in gergo teatrale “corre”, ma l’emissione è un po’ troppo aggressiva, accompagnata da troppa tensione, per cui viene a scarseggiare quella morbidezza necessaria ad accarezzare le lunghe arcate mozartiane (“Non mi dir, bell’idol mio” dal Don Giovanni). Lo stesso problema si manifestava, anche se in misura minore, nella seconda aria “Prendi, per me sei libero” da L’elisir d’amore (ruolo che mi pare più idoneo del primo), cantata con meno rigidità, anche se il do 5 della cadenza era di nuovo emesso con troppa forza, e le terzine della cabaletta non erano un modello di precisione. 

Il mezzosoprano Marta Lotti ha il proprio punto di forza in un timbro molto gradevole nel registro centrale, anche se personalmente mi pare piuttosto sopranile. L’emissione soffre di una certa diseguaglianza fra i registri; come ho appena accennato quello centrale è piuttosto bello e dolce, mentre quello grave è un po’ anemico: nella prima aria, la cavatina di Romeo dai Capuleti e i Montecchi belliniani, una frase chiave come “ma su voi ricada il sangue” era troppo debole per ottenere il dovuto effetto, mentre il si naturale della cabaletta era alquanto aleatorio. In ogni caso Romeo è ruolo più adatto alle sue attuali caratteristiche vocali di Santuzza, in cui la ricerca di accenti più drammatici accentuano la scarsa omogeneizzazione dell’emissione.

Mauro De Santis è tenore leggero dalla voce molto chiara e fresca, che (cosa ormai rarissima) non cerca minimamente di ingrossare artificialmente o camuffare. Si ha l’impressione che abbia delle perplessità riguardo al passaggio di registro, che spesso è troppo aperto e soprattutto ricorre al falsetto quando cerca di produrre dei piani o pianissimi, occorrenza manifestatasi più volte data la natura delle arie scelte, entrambe ricchissime di modulazioni dinamiche. 

Rosa Pérez Suárez ha una voce di notevole volume caratterizzata da una certa qualità timbrica metallica che non mi dispiace in quanto la rende immediatamente riconoscibile. Le arie scelte sono due preghiere da cantare con dolcezza e soprattutto in acuto l’emissione non perfettamente immascherata non rende al meglio il carattere impalpabile, etereo di “Casta Diva” (un po’ faticosi i la naturali ripetuti e il si bemolle). “Vissi d’arte” è risultato nel complesso migliore, con un si bemolle più riuscito di quelli di “Casta Diva” e un intervallo discendente ben eseguito. Apprezzabili anche i lunghi fiati. Peccato per il taglio del recitativo “Sediziose voci”, di sicuro più adatto alle caratteristiche vocali del soprano.

Sono sicuro che sentiremo parlare spesso di Božidar Božkilov, basso bulgaro dalla tecnica già piuttosto buona e dal timbro un po’ acerbo in virtù della giovanissima età: a ventun anni la voce di un basso è ancora in via di formazione. In ogni caso è indubbiamente sulla buona strada: l’estensione è notevole e, come accennato, l’emissione è corretta.

Ventunenne e altrettanto promettente è anche Claudia Nicole Calabrese, soprano lirico leggero dal timbro già piuttosto scuro e assai piacevole, dall’emissione omogenea e ben proiettata, ricca di armonici. Il problema principale al momento risiede in un fraseggio monocorde, più evidente nella prima aria, quella di Giulietta dai Capuleti e i Montecchi, eseguita con un costante mezzoforte. Ma, ripetiamo, il materiale è pregevole e soprattutto mi pare che la buona tecnica le permetterebbe di eseguire i segni di espressione se solo lo volesse.

La recensione • Eva Pleus

Annalisa Ferrarini, soprano

Soprano leggero dalla tecnica piuttosto precaria. Soprattutto in Donna Anna si sentiva il cambio di registro, gli acuti tendevano ad essere striduli e non sempre sembrava appoggiare il suono. Quest’ultima cosa si è ripetuta anche in Adina. Sicuramente volontà e tenacia non le mancano.

Marta Lotti, mezzosoprano

L’interpretazione dell’aria di Romeo da I Capuleti è risultata troppo scolastica, mentre per ciò che concerne Santuzza il ruolo è apparso ben al di là delle sue attuali possibilità vocali. Preferiremmo ascoltarla in altra occasione e altro repertorio.

Mauro De Santis, tenore

Questo ragazzo ha dei bei mezzi e non canta per niente male; ha mostrato molta espressività sia in Cilea sia in Donizetti. Il suo problema principale è risultato la timidezza e, nella parte relativa allo scambio di battute con gli ospiti, è stato un problema sentirlo parlare. L’agognato mondo della lirica vuole persone che ostentino sicurezza. Pur bravo a studiarsi il recitativo da L’elisir d’amore poco prima della performance, ci si chiede il perché a trentacinque anni, non abbia ancora in repertorio Nemorino.

Rosa Pérez Suárez, soprano

Ha temperamento da vendere, ma la linea di canto era inficiata da un certo vibrato, soprattutto in “Vissi d’arte”. Meglio Norma, ma non sono sicura se il soprano drammatico d’agilità (e comunque il soprano drammatico) sia veramente la scelta giusta per lei.

Božidar Božkilov, basso

Che questo ragazzo avesse la voce più importante della serata, è stato evidente per tutti. Inoltre possiede nonostante la giovanissima età una già buona preparazione tecnica, ed è molto deciso a studiare ed a migliorarla ulteriormente. Certo, dovrà lavorare sulla pronuncia italiana, ma non dimentichiamo che anche Boris Christoff non ha mai perso del tutto il suo accento bulgaro…

Nicole Claudia Calabrese, soprano

Questa ragazza di soli ventun anni ha davvero possibilità per il futuro, possibilità aiutate anche da bella presenza e buona sicurezza di se stessa; ottime doti espressive ne L’amico Fritz, mentre in Bellini si è dimostrata ancora piuttosto acerba.

GALA MARIA CALLAS

Collesalvetti, Giovedì 02 Aprile 2015 ore 20,30

La recensione • Nicola Lischi

Il soprano israeliano Yael Sayag è un soprano lirico dal timbro tendenzialmente monocromatico, che raramente ricorre ai giochi di chiaroscuri previsti dalle sue arie; si osserva un’eccessiva dispersione armonica e una tendenza a una lieve oscillazione per il momento abbastanza controllata. “Un bel dì vedremo” come aria a se stante può anche esser inclusa in un concerto, anche se abbiamo dubbi che l’opera intera, Madama Butterfly, sia attualmente nelle sue corde, considerazione ancor più valida per la seconda aria “Pace mio Dio” da La forza del destino, cui la vocalità del soprano è fondamentalmente aliena. Il quartetto del Rigoletto è parso più congeniale. Sono in definitiva mezzi vocali di rilievo che potrebbero esser meglio impiegati con un maggiore controllo tecnico volto soprattutto a tenerli più compatti.

Il polacco Milosz Lipowiecki ha una voce di basso di un certo volume, che però non può al momento sfruttare pienamente perché il suono manca di proiezione; usando termini gergali, il suono non “gira”, non raggiunge la cosiddetta “maschera”, ossia non è ancora dotato di una corretta conduzione degli equilibri pneumofonorisonanziali. Il risultato è che una voce potenzialmente piacevole avrà problemi a riempire un teatro anche di modeste dimensioni. Fra le arie cantate, adatta alle sue caratteristiche vocali è soprattutto l’aria di Leporello dal Don Giovanni (divagazione: dovrebbe esser vietata per legge la tradizione di sostituire il secondo “quel che fa” con il solito discutibile mugugno), mentre nella “Calunnia” da Il barbiere di Siviglia (eseguita in tono) sarebbe preferibile una voce più autorevole.

Il mezzosoprano francese (metà italiana, anzi toscana come abbiamo da lei appreso) Paloma Pelissier ha una voce di modesto volume ma di buona scuola, dal timbro simpaticamente accattivante che mi ha più di una volta ricordato quello liquido e naturale di Frederica Von Stade, cantante che la Pelissier, almeno in questa fase della carriera dovrebbe prendere ad esempio per quanto riguarda il repertorio. Felicissima infatti la scelta di “Voi che sapete” da Le nozze di Figaro, cantato con gioioso, contagioso entusiasmo. Se brani come la Seguidille possono esser affrontati in concerto senza problemi, il ruolo intero di Carmen, soprattutto da metà del secondo atto in poi, pare proprio al di fuori della sua portata. Si tratta insomma di una cantante che non sfigurerebbe affatto nei cartelloni dei grandi teatri in ruoli come Dorabella, Despina, Zerlina e appunto Cherubino.

Che il tenore franco-tunisino Hamadi Lagha possegga una voce schiettamente tenorile, potente e virile non può esser messo in discussione; è infatti dotato di uno strumento di primo ordine, un diamante grezzo che deve esser rifinito più per il gusto interpretativo che da un punto di vista prettamente tecnico (anche se si affida un po’ troppo a un’ipercinesia laringea). Colpisce indubbiamente la sicurezza, anzi l’insolenza del registro acuto (molto bello il do della romanza de La bohème); è in pratica uno di quei tenori (perché di tenori quasi sempre si tratta) che devono esser per così dire “imbrigliati” perché evitino di prodursi in effetti di dubbio gusto e acquistino una maggiore musicalità. In ogni caso ci troviamo di fronte a un enorme potenziale.

Strano il caso del soprano Francesca Pacini, riuscita ad eseguire passaggi di enorme difficoltà con scaltrezza tecnica, come l’ascesa al do acutissimo in “O cieli azzurri” di Aida, momento temutissimo da tutti i soprani, che assai raramente ho sentito risolto con la stessa facilità della Pacini e tutto in un fiato. Molto dolci anche i due la naturali che aprono e chiudono l’ultima frase dell’aria. Anche il registro centrale è notevole, mentre quello grave è piuttosto fioco, avvertibile soprattutto in “L’altra notte in fondo al mare”. Una cantante interessante che dovrebbe concentrarsi a rendere meno cospicui i passaggi e i cambi di marcia fra i vari registri.

Un timbro ricco, morbido, di un velluto che però ricopre una colonna di marmo è quello di Chiara Mogini, che, appena venticinquenne, vanta già un controllo tecnico da professionista, con un appoggio molto sicuro, una gola larga che le permettono un’emissione omogenea, sul fiato e acuti corposi e sicuri, perlomeno fino al si bemolle. Vale la pena descrivere in dettaglio la bellezza degli intervalli discendenti alla fine di “Vissi d’arte”, si bemolle-la bemolle-sol naturale, cui la maggioranza dei soprani arriva in pratica a corto di fiato. L’altra aria, “Voi lo sapete o mamma”, ha evidenziato un registro grave di una certa sostanza e un ottimo uso della voce mista di petto come dimostrato nella frase “io piango”, spesso usata da molte Santuzze per scatenarsi in effettacci di orrido gusto. Ciliegina sulla torta, ha un timbro di quelli che si riconoscono subito.

Un altro cantante tecnicamente agguerrito è Angelo Fiore, tenore dalla voce non enorme in larghezza ma sviluppata in verticale, un timbro dai registri integrati e bilanciati e dotato di acuti piuttosto squillanti, come ampiamente dimostrato dalla celebre aria “Ah, mes amis” da La fille du régiment con la sua sfilza di do sovracuti. Il quartetto del Rigoletto gli ha permesso di dimostrare anche la bontà del passaggio di registro (inavvertibile) ed un registro centrale di una certa polpa. Si tratta insomma di un tenore con tutte le carte in regola per una bella carriera che, consiglio personale, dovrebbe concentrare sul repertorio belliniano, donizettiano, e su certi ruoli verdiani.

GALA GIUSEPPE DI STEFANO

Collesalvetti, Giovedì 19 Marzo 2015 ore 20,30

Innanzitutto vorrei congratularmi con gli organizzatori per l’originalità, almeno nel campo dell’opera, di questo nuovo formato, una vetrina che permette a giovani artisti di farsi conoscere ad un pubblico più vasto. In seguito alla defezione forzata per improvvisa indisposizione dell’unico tenore previsto, la componente femminile è risultata decisamente sbilanciata in favore del gentil sesso, con una sola voce maschile a far da contraltare.

Prima di inoltrarmi nell’analisi dettagliata delle prestazioni di ogni singolo artista, mi preme sottolineare il livello qualitativo generale piuttosto alto. Vi sono stati indubbiamente cantanti che mi hanno persuaso più di altri, o che ritengo più pronti alla grande carriera, ma nel complesso mi sono trovato di fronte ad artisti preparati, con evidenti lunghi anni di preparazione alle spalle.

In poche parole vi erano scarsissime tracce di quel dilettantismo che purtroppo affligge molti concorsi di canto.

La recensione • Nicola Lischi

La prima parte è stata introdotta da Silvia Pantani, soprano dal bel timbro lirico puro di notevole volume e dalla valida emissione, compatto e corposo nel registro centrale, che ha sfruttato a dovere nella sua prima aria “Sì, mi chiamano Mimì” da La bohème, soprattutto in certe espansioni liriche quali le due ascese al la naturale (“ma quando vien lo sgelo…”); si è però mostrata un po’ troppo avara di sfumature e segni dinamici: avremmo preferito che ad esempio i la naturali di “Di primavere” e di ”Il profumo d’un fiore” venissero emessi con maggior gentilezza, attaccandoli piano seguendo le indicazioni di Puccini per l’orchestra. Questa è un’aria che in fin dei conti si canta per mostrare un’ampia tavolozza dinamica ed interpretativa, più che per sfoggiare acuti o tonnellaggio vocale. La seconda aria, “Son pochi fiori” da L’amico Fritz, ha evidenziato un tentativo relativamente più convincente di impiegare una maggiore gamma di sfumature.

Il mezzosoprano Marta Leung Kwing Chung ha confermato ed anzi rafforzato l’impressione favorevole destata l’anno scorso con ruolo di Nicklausse in Les contes d’Hoffmann; anche qui si è cimentata nel repertorio francese, con la “Chanson bohème” da Carmen e “Mon coeur s’ouvre a ta voix” da Samson et Dalila. Non nascondo che l’inserimento di questa ultima aveva suscitato in me alcune perplessità, considerata la tessitura contraltile nonché la perizia tecnica e il controllo perfetto richiesti per legare frasi lunghe in un registro grave. La Leung Kwing Chung è un mezzosoprano chiaro di medio volume, ma indubbiamente mezzosoprano: la voce ha una purezza timbrica notevole, stabilità di emissione e controllo pneumofonico di tutto rispetto, voce raccolta e ben immascherata, e gestisce con maestria le terribili discese verso i do e i si bemolle gravi senza il minimo accenno a gonfiare le gote per produrre volume artificiale. Vorremmo sottolineare anche la precisione dell’orchestra in un brano sempre più frenetico come la “Chanson bohème”.

Osservazioni non dissimili possono muoversi verso Kiok Park, basso coreano dal timbro non particolarmente cavernoso, ma morbido, uguale in tutta la notevole estensione, qualità dimostrate sia nella prima aria “Vi ravviso, o luoghi ameni” da La sonnambula (di cui ha fortunatamente eseguito anche la cabaletta), con un bel sol grave nella cadenza, che nella seconda, “O tu, Palermo” da I vespri siciliani, di nuovo caratterizzata da buon legato e canto sul fiato.

Volume da vendere ha al contrario il soprano Alice Molinari, che si è distinta per la potenza dei decibel in un registro acuto particolarmente fulminante e penetrante. Non crediamo che la prima aria, “Come scoglio” da Così fan tutte, le sia particolarmente congeniale: insiste sul registro grave, e il canto di sbalzo, con i temibili ampi intervalli, accentuano l’indubbia disuguaglianza timbrica; inoltre la coloratura era decisamente perfettibile. Più felice si è rivelata la scelta di “L’altra notte in fondo al mare” dal Mefistofele di Boito, in cui ha dato mostra di esser ottima fraseggiatrice.

Consuelo Gilardoni è un soprano lirico leggero, più lirico che leggero, con un acuti sicuri e facili e un registro centrale di una certa corposità, Si è presentata con due celeberrimi valzer, quello di Juliette (da Roméo et Juliette di Gounod) e quello di Musetta da La bohème pucciniana. Il primo le ha permesso di far sfoggio di buona (se non proprio vorticosa) coloratura, il secondo di mettere in mostra il legato e l’omogeneità vocale. Un consiglio: dato che indubbiamente ne sembra capace, potrebbe ottenere maggior effetto se eseguisse il diminuendo previsto sull’ultimo si naturale del valzer di Musetta.